Cosa vuol dire essere una brava persona, come si fa a sapere di essere bravi?
La domanda della buona vita è una domanda in cui gli individui più eccelsi del genere umano hanno da sempre provato a rispondere. È una domanda che crea imbarazzo, perché richiede una nozione di una semplicitàà puerile, ma sono proprio le domande più semplici quelle più difficili da rispondere: cosa è bene e cosa è male? Come può una persona incarnare l’essenza di una tale domanda?
Chissà cosa fa la gente al mattino, quali piccoli riti ha. Per dire, immaginate cosa faccia Donald Trump quando si alza dal suo lussuoso letto in Florida, oppure che ne so, il Dalai Lama.
Apro gli occhi. “Basta! Un’altra notte così non la posso passare” penso fra me e me con una voce affranta nella testa. È mattino, e la sua luce chiara filtra fra le tende leggermente aperte illuminando i solchi lasciati dalle doghe del letto crollate. Accordando all’illusione del dogma occidentale, l’alba di un nuovo giorno significa pensieri positivi aspettando il successo che porterà la sera. Ma al momento per me ha tanto il sapore di un mal di schiena preannunciato, e il successo probabilmente arriverà in quel giorno incerto chiamato domani. Prendo e sblocco il telefono, una notifica: “Bro! Sì, il letto è ancora disponibile, è tuo se lo vuoi. Fammi sapere” fine del messaggio. La sera prima ho visto sul marketplace un tipo che stava dando via un materasso, ho replicato all’annuncio. Certo che bro poteva anche non chiamarmici, ora va così di moda, non poteva esordire con un semplice “ciao”, voglio dire perché oggi si tende a dare questa iper confidenza e a rapportarsi con gli altri come se si fosse sempre all’intero di un cazzo di film Marvel. Se non fai ridere o non ti fai vedere cool, allora non va bene, devi per forza andare oltre ed essere amicone subito. Chissà se era così anche nel Settecento, chissà se Robespierre ha mai scritto una lettera a Marat dicendogli “Bro, dobbiamo tagliare più teste”, o cose così, magari con l’accento parigino, perché mi immagino che all’epoca era quello a cui tutti puntavano ad avere. Comunque il letto mi serve, e così gli dico: “Bro, un’ora e ci sono. Mandami la posizione!”
È ormai da qualche mese che mi sono trasferito a Enschede, e fino a ieri il mio mantra giornaliero era diventato una preghiera verso me stesso per avere un nuovo letto, illudendomi in un suo acquisto. Ma d’altronde se nemmeno il dio cristiano ascolta i suoi fedeli, come mai potrei sperare che io ascolti me stesso? La verità è che sono uno stronzo pigrone. Nietzsche diceva che ciò che accomuna tutti gli uomini è l’essere pigri, e come sempre il padre dell’eterno ritorno ha maledettamente ragione. La mia pigraggine si stava trasformando in una specie di feticismo verso il mal di schiena. Applicazione dell’autodistruzione, è l’auto distruggerci che ci distingue da tutti gli altri animali. Anche questo lo ha detto Nietzsche, o almeno penso sia stato lui, forse è stato Kant ma potrebbe essere stato anche Jimmy Carter per quel che mi interessa. Il punto è che stiamo parlando di uno stramaledetto letto. Quando mi sono trasferito nel mio nuovo appartamento mezzo arredato con mobili Ikea, non c’era un letto, nessun materasso. Al loro posto però ho trovato un bellissimo divano a mo’ di puffo. Al che mi sono detto: “Beh, ho sempre voluto un futon.” Applicando le giuste lenzuola, posizionandolo nel giusto punto della camera, e con un po’ di immaginazione, in effetti, data l’altezza, il mio divano letto avrebbe potuto dare una vaga impressione di futon. E dato che ero abbastanza al verde, l’idea mi piaceva. Dopotutto il nostro pianeta ci chiama ad essere sostenibili ed a riutilizzare il vecchio portandolo a nuovo. Ma già dopo la prima notte mi era chiaro che il mio futon che non era un futon, non poteva essere il mio letto per molto, salvo non fare un copioso bonifico bancario al chiropratico.
La fortuna è un elemento che ha contraddistinto tutta la storia umana. Un elemento talmente forte che nella sua massima espressione ha preso il nome di destino. Pensate a quante volte avete fatto ricorso al destino, accentando le sue decisioni come fato. Magari il lavoro che avete, le vostre vittorie e le vostre sconfitte, la storia della vostra intera esistenza fino a questo momento. Forse, per tutto questo avete usato la parola destino, per il passato e per il futuro. Probabilmente lo avete usato in amore. È il destino che vi ha fatto incontrare vostra moglie o vostro marito. É il destino che ti ha fatto innamorare di quella cameriera dagli occhi verdi, perché se il tuo amico, quel venerdì sera non fosse venuto a cena da te e ti avesse rovesciato del vino rosso sulla camicia che indossavi, tu non l’avresti mai mandata in lavanderia. E se la lavanderia del tuo quartiere non fosse appena stata chiusa con l’accusa di riciclaggio di denaro, tu non saresti mai andato in quella che sta nella zona est della città, una breve deviazione dalla strada che fai tutti i giorni per andare al lavoro. E se non l’avessi portata lì la camicia, durante la pausa pranzo, non ti saresti mai fermato in quel bar anonimo dalle pareti gialle, e quella cameriera, dagli occhi verdi, non l’avresti probabilmente mai vista, e non te ne saresti innamorato. Per te sarebbe ancora un mondo nascosto, come la maggior parte dei mondi. Le tue fantasie sessuali verso il giovane professore di filosofia, anche quelle sono colpa del destino. Se tuo padre non fosse medico e tua madre avvocato, forse non saresti mai andata al liceo classico. E se il tuo professore non avesse scelto il cuore, ma la carriera, avrebbe accettato quella posizione di dottorato all’estero, in un Paese lontano. Ma non lo ha fatto, forse il destino voleva così. Ed ora, dopo mesi di timidezza, senti il suo respiro sul collo, mentre fai l’amore con lui nel ripostiglio della scuola, dopo l’orario delle lezioni. Lui ha tradito l’amore per cui ha rinunciato alla carriera, in cambio della spensieratezza e dell’ingenuità che solo una giovane amante può offrire. Tutto questo per non accettare l’inesorabile tempo che avanza, tutto per gridare un potente “NO!” all’oblio delle esistenze anonime, ma può mai un’esistenza essere anonima? E tu lo hai sedotto, e poi ti sei lasciata sedurre una volta che sapevi che lui era già tuo. Perché quelli della tua età non leggono Proust, non conoscono l’immensità di Goethe, e non apprezzano la melanconia nascosta che solo Picasso poteva conferire con il suo tratto. No, questo solo un uomo la cui bellezza giovanile è ormai matura, ma dalla cui bocca emergono le ombre di Proust, Goethe, Picasso, Voltaire e Marx, poteva rapirti. Forse anche questo lo chiami destino. E in questa solennità massima che trascende le epoche umane, e a cui ci appelliamo con il nome di destino, anche in lei, il capitalismo ha fatto il suo esordio. Dalle budella dei tori nell’antica Gerusalemme, all’abbonamento dell’oroscopo. Ognuno si ingrazia il proprio dio. E quando il tributo paga, nella sua massima espressione è il destino a volerlo, ma nella sua minima è la fortuna. La differenza tra destino e fortuna è la stessa che c’è tra il papa e una zingara che legge le carte. Ma nella sua esistenza pratica, la differenza si perde come kerosene nel mare.
Arrivato alla mia destinazione, suono il campanello. Il tipo che mi deve vendere il materasso mi apre, e mi dice di aspettare che arriva subito con ciò per cui sono venuto. Si presenta con un materasso a molle a due piazze, è enorme. Mi dice che è praticamente nuovo ed è ergonomico, lo sta dando via per il semplice fatto che sta andando a vivere con la sua ragazza, e lei non vuole dare via il suo. Mi dice che per dieci euro è mio. C’è chi chiama questa fortuna, e chi dice che le azioni di un altro si sono incontrate con le mie, interagendo ed andando a mio vantaggio. Mi ritrovo a camminare per strada, il materasso è con me. Enorme e colossale, le molle al suo interno lo rendono pesante come la Terra, ed io, goffamente sotto di lui, mi sento come Atlante che sta reggendo il mondo sulle sue spalle. Arrivare fino a casa in quelle condizioni non se ne parla, è fuori dalla portata delle mie capacità biologiche. Sconfitto, l’unica cosa che posso fare è trascinare il pesante trofeo della mia fortuna, con fatica, fino alla fermata dell’autobus vicina così da trasportalo. Gli eventi hanno uno strano senso dell’umorismo: io contro l’eterno mondo, non solo egli ride della mia goffaggine e debolezza umana per portare a termine un compito tanto semplice, decide di deridermi prendendosi gioco di me con la pioggia. Entrambi fradici, io e il materasso, aspettiamo la compassione del nostro salvatore: il bus. Al suo arrivo l’autista ci vieta di salire, mi dice: «Tu puoi salire, ma lui (il materasso) rimane giù.» Cosa posso fare io? Ha un materasso dei diritti? Penso:“Cosa avrebbe fatto Rosa Parks in una tale situazione?” Niente arriva alla mia mente, ed avvertendo l’impazienza degli altri passeggeri, decido di rinunciare, aspetterò il prossimo.
Il secondo bus non si ferma nemmeno, l’autista, si vede uno scaltro e navigato, capisce subito le mie intenzioni e decide di tirare dritto evitando le mie suppliche. Forse con il prossimo avrò più fortuna. Il terzo bus passa. Lo sguardo mio e quello dell’autista si incrociano, nei suoi occhi vedo il dispiacere. Capisco che è sincero, lui avrebbe realmente voluto aiutarmi, ma il suo ruolo (quello di autista) glielo vieta. Esiste una regola: niente materassi sui bus. La regola è chiara, e va rispettata. Regole: le armi del genere umano contro il caos, contro l’anarchia. Lui sa che, se mi facesse salire, l’anarchia vincerà, l’idea democratica di Stato moderno, in cui doveri e diritti sono presenti, in cui tutti hanno un ruolo, ed è il rispetto di quel ruolo che porta la prosperità collettiva, verrebbe sconfitta. Suo padre ha lottato nella guerra, e li ha perso il suo migliore amico, Jacobs. Ha combattuto per la liberazione, per i valori nei quali credeva, per creare un mondo migliore per i propri figli basato sul rispetto dei propri ruoli sociali. Vedo nei suoi occhi che mi vorrebbe far salire, che sa che sono solo un ragazzo con un materasso sotto la pioggia. Ma sa che se lo fa, verrebbe meno al suo ruolo, alle sue leggi. Sa che se lo farà una volta, allora potrà farlo ancora, l’anarchia vincerà, e suo padre avrà lottato invano, Jacobs sarà una vita portata via senza più valore. Cos’altro posso fare? Sotto la pioggia e al freddo. Io e il materasso. Davanti ho due possibili strade: abbandonare il materasso, dichiarare la mia silenziosa sconfitta al mondo e sotto la pioggia tornare a casa mentre l’eterno si prende gioco di me: un patetico bipede troppo debole per un compito tanto facile. Oppure, appellarmi alla carità umana, sperare nel sentimento di fratellanza nei confronti del prossimo, verso un ragazzo e il suo materasso. Trovare conferma che duemila anni di egemonia culturale cristiana sia servita a qualcosa, così da togliere il sorriso beffardo all’eterno mondo, sconfiggendolo con il potere della solidarietà umana. Decido per il secondo, ed esponendomi verso la strada inizio a fare l’autostop. Le macchine passano, e nessuno si ferma. Cerco il loro sguardo, solo uno scambio: io che guardo loro, loro che guardano me. Solo questo, e se ciò accade so che il sentimento di fratellanza farà il suo compito. Ma niente di tutto ciò accade. Che razza di mondo è uno in cui le persone non si fermano per aiutare un ragazzo e il suo materasso sotto la pioggia? Come siamo arrivati a questo punto? Percepisco che le persone mi vedono, ma non si girano. Sanno che i loro occhi non riuscirebbero a sopportare la richiesta dei miei, e così mi ignorano direttamente. Forse Kierkegaard aveva ragione, oggi più che mai. Siamo solo esteti, impegnati nelle frenesie delle nostre vite impegnandoci solo nelle apparenze, solo quando gli altri ci vedono. Ma dentro siamo vuoti, senza più impegno verso il prossimo, non giuriamo fedeltà al buono per il suo semplice fine, ma giuriamo come mezzo per la nostra scalata. Siamo criceti, tra i più carini.
Tempo è passato, e ormai la mia speranza di riuscire a conservare la mia schiena integra durante la notte se ne sta andando insieme a quella per il genere umano. Quando però all’improvviso un anonimo spunta dalla pioggia con la sua bicicletta. È un uomo sui settanta, dai tratti pesanti e la barba incolta. Indossa un impermeabile verde, e le sue mani dicono che ha avuto una vita dura. Mi si avvicina, e mi dice in un inglese non perfetto: «È da più di mezz’ora che ti sono ad osservare dalla mia finestra, ti voglio aiutare, dimmi cosa posso fare.» Io gli spiego la mia storia, e gli chiedo se ha una macchina così da riuscire a portare il materasso al campus. Il vecchio mi risponde di no, ma dice che mi vuole ugualmente aiutare, che in qualche modo possiamo farcela. E proprio mentre finisce la frase, in fondo la strada gira l’angolo un bus, il quarto. A gesti, il vecchio mi fa capire che ci parlerà lui con il conducente del bus, che sa la lingua e lo convincerà. Non so che cosa l’autista e il vecchio si siano detti. So solo che egli si è messo in ginocchio per me, ha sacrificato la sua dignità per la dignità di tutti noi. Ha implorato in ginocchio affinché l’autista mi lasciasse salire, me e il materasso. Ha scelto la via etica, il buono come unico fine. Sotto la pioggia, quell’uomo che nel mondo è invisibile, ha fermato un bus e si è messo in ginocchio per aiutare un ragazzo sconosciuto. Ha fatto con l’estremo, una semplicità che i più hanno ignorato. Davanti a una tale trasparenza di bontà, l’autista era ormai indifeso, gli obblighi dei ruoli ormai erano caduti. Io e il vecchio carichiamo il materasso, e in tutta quella fretta non ho nemmeno il tempo di ringraziarlo. Le porte del bus si chiudono, e mentre il mezzo parte da fuori vedo il vecchio che sotto la pioggia inizia a saltare ed esultare dalla felicità. Sì, ce l’ha fatta, ha avuto ragione lui, ci ha salvati senza che noi lo sappiamo, ha salvato un ragazzo e il suo materasso. E da dentro, io non posso fare altro che unirmi alla sua gioia eterna racchiusa in un attimo.